Il molisano di Ripalimosani, l’abate Francesco Longano, considerato un metodico e scrupoloso illustratore delle condizioni sociali ed economiche della sua terra, autore di celebrati rapporti, con il Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata del 1790 delinea realisticamente il quadro di un Tavoliere delle Puglie destinato alle sole attività della pastorizia transumante e dell’agricoltura estensiva, laddove pastori, contadini e braccianti sopravvivono a fame e malattie nella più assoluta indigenza, ignorando persino i più elementari diritti. Un Tavoliere condannato da una pastorizia arcaica all’abbandono e allo spopolamento, privo di coltivazioni arboree, di ricoveri per uomini e animali. Eppure è un Longano ottimista quello che, rivolgendosi ai consiglieri del Supremo Consiglio delle Finanze di Napoli, conta sulla circostanza improbabile che «praticati alcuni pochi regolamenti […] potrà la Capitanata divenire una delle più prospere Provincie del Regno» (F. Longano, Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata, Napoli 1790, presentazione).
Longano, ripercorrendo le secolari vicende fiscali del Tavoliere, loda re Alfonso: «Ah care ceneri d’Alfonso, perchè non vi rianimate, e ritornate a rendere prosperi non che gli abitanti, ma i monti, i piani, le valli, e i colli stessi di tali Provincie!» (Ivi, pp. 143-144). Il cui «nobile disegno» non si era limitato a sviluppare la pastorizia e l’agricoltura, ma altresì ad «accrescere le arti secondarie», in particolare quelle legate alla lana; prodotto che svenduto invece allo stato grezzo «non ti dà neppure il quarto di quelche ti dà manifatturata» (Ivi, pp. 155-157). Infatti, dopo Alfonso d’Aragona, la pastorizia e l’agricoltura non erano state collegate a una industria di trasformazione dei prodotti derivati e a una rete di commercializzazione anche con l’estero.

«Non solamente non si è pensato di supplire a quanto quel Principe non avea potuto eseguire, ma si è fatto di peggio. Si è cercato per soverchia avidità de’ Doganieri distruggere l’istessa pastorale […] perché alterandosi ogni cosa in male, in vece da tempo in tempo ritirare la pastorale a’ suoi primi principj e stabilimenti d’Alfonso, si è sempre più allontanata da quelli» (Ivi, p. 158). Di fatto, in particolare nella piana spopolata del Tavoliere, oltre alla forza lavoro proveniente dagli Abruzzi, dal Contado del Molise, dal Principato Ultra (Irpinia), dalla Basilicata, mancano le fabbriche, gli opifici, i laboratori, gli stabilimenti per la trasformazione e la manifattura delle lane, delle pelli e di quant’altro venga prodotto grezzo dall’attività pastorale; mancano le redditizie produzioni di frutta e ortaggi che vengono importate da fuori; manca addirittura l’olio che «viene dalla Marina di Bari, forse perchè quello di Viesti è portato fuori […] non ci sono saponiere, nè Cartiere, nè Ramiere, nè Ferriere», manca ogni altro tipo di articolo utile alle popolazioni di Capitanata (Cfr. ivi, pp. 171-172).
È senz’altro un quadro fosco quello della Capitanata descritta da Longano nel 1790, con in primo piano povertà e miseria percepibili «quasi ad occhio». Una realtà quotidiana composta da «massari impoveriti, e giornalieri abbandonati», da pacifici, patiti e smarriti pastori abruzzesi e molisani che soffrono nel corpo straziato le malattie conseguenti ad una vita dura e nell’animo avvilito la costante e continua perdita del bestiame. Un mondo di poveracci «premuti da’ pesi, vessati da agenti, erarj, e governatori, e predati in fine in ogni anno da’ pochi ricchi, e da privileggiati de’ proprj Paesi» (Cfr. ivi, pp. 210-211).
Per aumentare la scadente produzione di cereali Longano indica le pratiche e le tecniche colturali da migliorare e da adottare ex novo: preparazione ottimale del terreno, selezione delle sementi, diserbo meccanico accurato, concimazione utilizzando anche le sostanze organiche prodotte nei paesi, introduzione di strumenti e macchine più consone alla coltivazione.
Riguardo gli affittuari l’abate, – chiaramente contrario ai contratti annuali, biennali e triennali, – propone in maniera convinta che la durata degli stessi debba essere decisa in maniera unilaterale dal conduttore lavoratore, perché questi possa eseguire le migliorie tanto necessarie ai campi ed essere messo nelle condizioni di avvantaggiarsene.
Per Longano, inoltre, la proprietà delle terre dovrebbe essere indirizzata «a chi le può fare ben valere, non già a sfaticati, e agli alunni dell’accidia» (Ivi, p. 219); solo allora si potrebbe «il piano stesso ammirare verdeggianti d’arbori, e arricchiti d’ogni genere di fruttati» (Ivi, p. 220).
Per risolvere le drammatiche carenze demografiche della Capitanata, l’autore molisano propone di quotizzare in piccole porzioni tutto il territorio destinato alla semina e di invitarvi abruzzesi e molisani con l’obbligo di costruirvi ricoveri e di piantarvi alberi. Lo scopo evidente è quello di costituire focolari domestici vivibili, attorno ai quali poter riunire intere famiglie con a disposizione luoghi non soleggiati e freschi per attenuare l’insopportabile calura estiva, frutta e ortaggi per sopperire alla carente produzione e distribuzione, legna da ardere per attenuare i rigori invernali. Ma per l’abate – diversamente da altri – è necessario delimitare in maniera fissa le aree destinate alla semina da quelle destinate al pascolo, allo scopo di far convivere pacificamente le due attività e migliorare entrambe. Tuttavia, «siccome non si può eseguire la prima senza la censuazione, così verrebbe anche censuato il Territorio addetto al pascolo, ed avrebbe ogni locato la sua Posta fissa» (Ivi, p. 252), dando possibilmente la preferenza nell’assegnazione delle poste fisse ai locati che provengono dalle regioni più distanti: nell’ordine abruzzesi, molisani e, infine, pugliesi.
E per contestare e contrastare coloro che insistono nell’imputare alle condizioni ambientali, climatiche e pedologiche la desertificazione e lo spopolamento di un Tavoliere abbandonato traumaticamente alla solitaria transumanza e alla banale semina estensiva di cereali, Longano – convinto assertore della ricchezza e della fertilità dei terreni della piana dauna, bisognevoli unicamente di essere lavorati e curati in maniera ottimale per dimostrare la propria potenzialità – ritorna ancora sulla proprietà delle terre: «Finchè non si concederà la proprietà delle terre, ed esse non vengano divise, e soddivise in piccoli pezzi, non si potrà mai vedere di chi è suscettibile quel terreno, il quale […] non può non essere atto a fare ben veggetare le piante» (Ivi, p. 250).
Come è facile constatare, sono degne di nota e ragguardevoli le identità di vedute tra Longano e Cimaglia. Anche se l’abate, pur prospettando una possibile e proficua convivenza tra agricoltura e pastorizia, resta dell’avviso – contrariamente al Cimaglia – che sarebbe necessario «vietare, che il Locato potesse essere massaro di campo, e questo poter menare masserie di pecore» (Ivi, p. 232).
Il giudizio di Longano su come vengono amministrate le Università, i beni ecclesiastici e i feudi è netto e risolutamente critico: le tasse non possono gravare «sopra l’unica classe dei campagnuoli». A tal riguardo, Longano propone al Governo addirittura di allontanare dalle amministrazioni comunali i ricchi e i privilegiati, perché «il contadino è l’unico uomo, il quale non conosce il riposo» e, pur appartenendo ad una classe onesta, i suoi figli «vengono esclusi dal potersi far notai, ed ottenere cariche civili», a causa della corruzione dei tempi che privilegia l’ozio al lavoro. Da questa per i tempi singolare visione della realtà nasce una proposta rivoluzionaria e, forse, provocatoria: sarebbe il caso di consentire alla classe dei contadini, «sostegno dello Stato», di accedere all’amministrazione dei beni delle «università» e alle cariche pubbliche (Cfr. ivi, pp. 123-125).
La polemica dell’abate su come i vescovi vivono e amministrano il territorio della Capitanata è chiara e netta, pur premettendo che non «hanno ragione d’irritarsi contro di me quelli, che vivono da pastori esemplari. Il sacro Ministero versa nelle funzioni sacre, nella esemplarità de’ costumi, nella cura degli allievi Ecclesiastici; in quella della mondezza delle Chiese, nella disciplina del Clero, nel sollievo de’ bisognosi» (Ivi, p. 193). Ricorda Longano che il «sacro Ministero de’ Vescovi […] è di sua natura divino» e che durante la cerimonia di ordinazione episcopale viene loro ripetuto che quod gratis accepistis, gratis date, perché abbiano bene a mente che «niente hanno di proprio. Tutto è de’ poveri, de’ bisognosi, delle Chiese». E, per semplificare e chiarire il ruolo e le prerogative di vescovi e arcivescovi, Longano riprende le parole di San Bernardo sulla necessità che gli alti prelati vivano poveri tra i poveri, liberi da rapine e da sacrilegi: «Praeter victum, et vestitum necessarium […] reliquum rapina est, sacrilegium est» (Cfr. ivi, p. 192).
L’abate giudica generalmente i vescovi della Capitanata avidi, assenti, disinteressati, distratti, negligenti, tanto che «la corruzione de’ costumi è universale, e l’ignoranza è comune»; corruzione e ignoranza che con tutta evidenza Longano attribuisce al modo di essere e di comportarsi di un clero che sembra tornato al decimo secolo, «senza lettere e privo di buon costume» (Cfr. ivi, pp. 195-197).
Anche sull’influenza e sul ruolo dei baroni nello sviluppo della Capitanata l’abate risulta essere estremamente critico, come quando argomenta che da capi di città, castelli, feudi e da difensori dei popoli qual erano, «incaricati a conservarne la quiete interiore, e la sicurezza esterna» (Ivi, p. 202), assegnate loro da re Alfonso le giurisdizioni penali e civili è conseguita «l’Epoca della rovina del Regno»: «Di qui i tanti pretesi diritti, le usurpazioni, le angarie, le parangarie, diritto cunnatico […] Di qui l’aumento delle discordie intestine tra baroni, e loro sudditi […] e il funesto principio di tanti Ministri baronali sempre avidi, e sempre rapaci» (Cfr. ivi, pp. 201-202).