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“Il miracolo del Gargano”: il reportage di Alfonso Gatto e Paul M. Pietzsch dopo 70 anni dalla sua pubblicazione

“Il Gargano già appariva azzurro, freddo, di un’altezza intensa”. È questa l’immagine che hanno avuto il poeta e scrittore Alfonso Gatto e il fotografo Paul M. Pietzsch nel lontano 1950, mentre erano diretti al promontorio garganico da San Severo e poi Apricena. Un viaggio che li ha portati a esplorare il cuore del Gargano, nel silenzio delle strade, tra la luce accecante dei paesi bianchi sulla costa.

Il racconto di questo viaggio documentaristico fu pubblicato il 23 dicembre dello stesso anno sul settimanale “Epoca”, ideata su modello dei periodici statunitensi come “Life”. Il testo di Alfonso Gatto e le foto di Paul M. Pietzsch sono oggi una testimonianza eccezionale di un territorio non ancora alterato dall’abusivismo e dalla distruzione selvaggia dell’antico.

In un articolo pubblicato il 2 luglio scorso su questo sito, si era già parlato di questo reportage attraverso la foto di una bambina di Ischitella, ritratta da Paul M. Pietzsch, intenta a trasportare sulla testa delle pesanti pietre. La foto in questione aveva suscitato profondo interesse dato il duro lavoro che stava svolgendo nel momento dello scatto, al punto da lanciare un appello per ritrovare o almeno sapere l’identità di questa bambina.

Non è trascorso molto tempo per risalire al suo nome, infatti, grazie agli interventi della comunità di Facebook oggi sappiamo che la bambina lavoratrice di Ischitella si chiamava La Malva Vincenza. Dopo 70 anni dalla pubblicazione del reportage sul settimanale “Epoca” (23 dicembre 1950), riproponiamo integralmente il testo Alfonso Gatto e le foto di Paul M. Pietzsch, testimonianza eccezionale di un territorio non ancora alterato dall’abusivismo e dalla distruzione selvaggia dell’antico.


Il miracolo del Gargano

Servizio per EPOCA di Alfonso Gatto e di Paul M. Pietzsch

A San Severo il mare non si sente, è lontano, una continuazione della pianura, senza stacco e senza rumore. Eppure, salendo da Foggia, per la strada tracciata ancor più nella sua solitudine e nella sua dirittura dalla luce agra di quel giorno senza sole, il Gargano già appariva azzurro, freddo, di un’altezza intensa. « Un’altezza intensa », proprio ci dicevamo per significare che il Gargano soltanto montagna non era, e cielo nemmeno, e mare non più, ma l’idea di un mondo, un’isola forse. Poi, dopo Apricena, sulla strada di Lesina, quasi per contrasto, sentimmo che la strada si assottigliava, ed eravamo noi a passare quella soglia sensibile che la pianura porgeva già alla montagna. Dietro l’automobile lasciavamo la polvere, una piccola diligenza a un cavallo e poi il silenzio, quel silenzio che precede e quasi annunzia la pioggia.

Cominciò a piovere. Una dolcissima pioggia d’estate, quale solo la laguna può attendere. Lesina è un paese di piccole case, d’una fontana sotto la pioggia e tanti ombrelli d’uomini e donne che fanno la fila sotto l’acqua per attingere acqua. Lesina è una spiaggia fredda e ventilata di barche nere, d’uomini controluce e la distesa rabbrividita del lago salato s’appiglia ai bastoncelli di canne prima di finire insabbiata dall’orlo della sua sponda silente. Le case erano bianche e l’una nell’altra bisognose dell’unto della vita per non dirsi soltanto calcinate dalla disinfestazione: i panni di colore stesi ad asciugare e trasparenti di pioggia, per quei forti celesti, per quei rosa da sorbetto, davano in piena afa un brusco senso di freddo. Avevano acceso un fuoco di legna sotto la caldaia del bucato e i bambini, come sempre, s’affaccendavano interno, davanti a gridi e a salti il loro saluto al crepuscolo. Eravamo nel Gargano, dovevamo dircelo, ove è raro si giunga per rimanerci o in cerca di fortuna, sibbene per piccoli commerci o per incetta di legna e di pesce. Gli stessi pugliesi che arrivano a Manfredonia e si spingono in pellegrinaggio sino a Monte S. Angelo o a San Giovanni Rotondo credono di essere andati al di là del proprio spirito d’avventura e di scoperta: i militari e gli inquisitori della finanza o della polizia, sempre a mezzo fra il fastidio da dare o da ricevere, ne sanno di più, ma per Rodi, per Peschici o per Vieste, che hanno nomi di frutta e di fiori, non benediranno mai il giorno che li ha portati a vivere laggiù. Lasciamo ormai Lesina e dall’alto, tra le brume del primo crepuscolo, rivedevamo la laguna con gli esili banchi di terra prima del mare, col suo crespo d’argento. S’apriva allo sguardo già l’altra conca di Varano, impressionata di silenzio come un quadro di Cézanne e noi entravamo in un paesaggio forte che non aveva altro aiuto che la propria fermezza nello spazio. Gli abitanti lo spalleggiavano, sicuri tra loro d’esistere, d’occupare tutta la via per camminare al braccio in catena, come deportati o come coristi, quasi a rintuzzare sin dall’inizio ogni forma di nostalgia che potesse portarli ad altri orizzonti o ogni tentativo di compromesso verso il forestiero, così simile alla pietà. Erano « indigeni » veramente quegli uomini e quelle donne, quali raramente è dato di vedere. Nulla avevano da dare alla curiosità degli altri. La sera era fresca, le nuvole erano rimaste sulla laguna e dopo Cagnano la montagna si copriva di boschi, d’alberi, di giardini, sotto il cielo staccato dall’altro cielo che avevamo appena fuggito e messosi finalmente a far da cupola all’ « isola » del Gargano, ad avvicinarle le prime stelle e l’azzurro rigoglio della sua volta, ad accogliere i sospiri delle famiglie affacciate ai balconi di Rodi. Tutto era così fresco, più chiaro di un chiaro paese del Sud, caricato dalla nostalgia del vespero e sospeso alle blandizie della luminosa notte terrena.

Il giorno di lavoro, per tanti segni del ritorno, d’uomini avviati finalmente a casa o già seduti in manica di camicia sul parapetto della piazza, era finito, ma la luce durava e lungo la spiaggia di San Menaio, tra la pineta e il mare, affacciate alle piccole case tra gli alberi, le famiglie rispondevano ai ragazzi già sulla strada con un piede sulla bicicletta. L’unico binario che corre a Nord il Gargano da San Severo a Peschici, comparendo e scomparendo dai tunnel, ora, dopo Rodi, correva parallelo alla strada e al mare celeste, alla spiaggia intatta. Dell’unico albergo color mattone non restavano che le grandi lettere dell’antica insegna: anche a non leggere la nuova targa, si capiva che lì c’era una colonia e che i bambini avevano preso d’assalto la villa una volta aperta ai forestieri che non sono mai venuti. Eppure, pensavamo, dove trovare un’aria così benigna, un cielo così propizio? Ma in quel paradiso non si poteva dormire, in quella notte accogliente non c’era un letto. Ci indicarono una pensione nascosta tra i pini, ma, giunti che fummo a un piccolo belvedere, non trovammo che una casetta quasi chiusa e una donna bellissima che agucchiava sotto una pergola. Rispose e non rispose alla nostra domanda, non alzò mai gli occhi, già ai primi di luglio ci diceva che « non era ancora la stagione ». Evidentemente, per inaugurare così tardi l’estate, quella Venere pigra non si aspettava altri forestieri che dei dintorni. In cuor suo forse n’era contenta. Nel paese dei miracoli gli abitanti si tengono stretti alla consegna del calendario, temono i sogni e i presentimenti più del diavolo. Quella donna bellissima col suo sorriso indefinito, in quella sera che colmava il cuore di freschezza e di confidenza, rimaneva impassibile. La sua bellezza le bastava. Ingrandiva  quasi al nostro sguardo ed era forse il simbolo stesso del Gargano, più remoto e più vergine di un’isola del Pacifico, inattaccabile dalla curiosità e dalla frenesia degli scopritori, inospite e alto come un luogo stesso del cielo. Bianco e azzurro, del colore di seta che veste le vergini, quell’isola di miracolo è ancora l’idea di un mondo. La sua implacabile luce, gli abitanti anneriti contro i lenzuoli sventolanti delle proprie case a specchio del mare, le montagne deserte e le strade sassose, ripide e attorte per raggiungere santuari e profeti, lasciano il senso d’una leggerezza ultima in cui brucia anche il cielo. Resta un’attesa eterna in cui s’odono i passi di Dio che cammina a piedi, fermandosi qualche volta per bere, come tutti gli uomini alla fontana della sua sete.

Alfonso Gatto


Ischitella: una lunga via in salita verso questa croce, il panorama che si scopre spazia fino alle Isole Tremiti


Rodi è il paese del Gargano la cui fama è stata rinverdita in questi ultimi anni e portata a significare tutta la bellezza d’una terra sconosciuta ai più e considerata remota come la luna. E Rodi infatti è il frontespizio dell’inimitabile libro bianco e azzurro sfogliato dalla luce e dal vento sino a Peschici, a Vieste, a Mattinata, tra spiagge e foreste


La rotabile a ampie curve porta a Peschici: vi passano poche macchine e molti asini. Gli abitanti fanno tutti le scale


Bianco e azzurro

Da Rodi, a Peschici, a Vieste, passando attraverso la pineta di San Menaio, si scopre un mondo illeso che non è stato ancora appannato. Sembra un paesaggio tratto nel suo fulgore da un vento arido che ne ha spiccato ogni stretta, fermando i colori nel vetro del proprio silenzio. La voce di un uomo è allora di se stessa un grido che traccia l’aria e s’annuncia alla volta celeste. I gesti dei pescatori nel mare intorno alle grandi rete a bilancia che stillano luce, dei contadini che salgono con gli asini la montagna, sembrano lentissimi, effigiati al loro nascere già nella memoria che li ripeterà come ritmi della solitudine ch’è nelle cose. E sulle spiagge, nelle insenature da un promontorio all’altro e dall’uno all’altro torrione, le barche verdi, nere, rosa, sembrano raccolte sulla soglia di un’isola trattenuta nel fiato dell’apparizione, in un’alba che presto sfumerà. La sorte effimera d’ogni bellezza si congiunge per gli stessi aspetti a una più fonda immagine della natura. Gli spazi aperti vincono sui luoghi descritti e visitati dalla vita, la luce e i colori spalancano gli abitati che più se ne stanno stretti e arroccati. Il bianco e l’azzurro sono pagine aperte di quel libro che continuamente si chiude in ogni casa buia, davanti a ogni fontana asciutta, nel cuore stesso degli uomini: un libro nero ove miracoli e preghiere, conti di debiti e cronache di stenti significano ancora stupore che ove è più bella l’Italia sia triste, ove è più bianca sporca, ove è più luminosa buia.

Entrate a Peschici, attraverso gli spaccati delle vie e della case, per le scale che precipitano sul mare, affacciatevi agli strapiombi, avvicinatevi alle fontane che danno acqua solo per qualche ora al giorno: penserete forse, come noi abbiamo pensato, che vivere è impossibile in quel paese che da lontano sembra un’assoluta immagine di felicità. Il ragazzo che ci guidava sapeva di mostrarci un paradiso e di vivere, lui con la sua gente, alla periferia di un panorama, figura in un mondo di figure, come il venditore di fiori di carta, come il mercante di merletti. Diceva che un giorno sarebbe forse venuto a Milano a fare il meccanico. È destino degli uomini del Sud questo di scacciarsi un’altra volta dal Paradiso con le proprie mani.


Basta la bancarella di un venditore ambulante di tessuti, l’arrivo di un forestiero o il fioraio di carta che grida tra le strade le sue roselline di velina rossa o celeste, perché Peschici si senta in compagnia. Quando non c’è nessuno, il paese se ne sta solo, bianco di calce e blu di mare, sul lastrico assolato della roccia




Il venditore di merletti e di trine, vestito di nero in mezzo a quelle case, abbaglianti di bianco, ha esposto in un ombrello aperto tutta la sua merce per le « belle figliole », come lui grida per richiamare ragazze e giovani spose.


A Ischitella fotografammo questa bambina di dodici anni che portava pietre sulla testa. Le chiedemmo cosa ne facesse. Non volle rispondere. Rimase impassibile davanti alla macchina poi si girò lentamente e riprese la lunga strada. No nera mai uscita dalle case del paese. Anche una vecchia ci disse che era stata soltanto a Rodi qualche volta in tutta la sua vita. L’Italia non era che un nome, solo un caro nome, per loro.


Da Vieste a Manfredonia la strada sale e scende per tornanti drammatici, tra foreste d’ombra e orizzonti di luce, in una solitudine quasi assoluta rotta ogni tanto dalla presenza di un boscaiolo o dallo strombettare di una vecchia macchina di funzionari o di una corriera. Il mare s’affaccia da ogni parte, è una piazza azzurra che ruota sotto il piede del promontorio. Si vede come il Gargano si solleva con forza dalla terra, dal litorale soffiato giù giù sino alle città e alle bianche cattedrali di Barletta e di Trani.

Mattinata è, se è possibile l’incanto, più felice del suo nome, al vederla apparire all’improvviso nella valle che poi risaliamo verso Monte Sant’Angelo. Montagne fitte fitte di muretti a gironi verso il cielo e nei ripiani contadini che battono il grano, gli uni sugli altri come nei quadri dei primitivi. Monte S. Angelo è l’albergo dei miracolati e dei pellegrini: le sue case allineate come in uno scacchiere guardano il cielo e il mare. Si immagina quasi che i Santi degli ex voto, uscendo dalla porticina delle proprie nuvole, prendano terra su questi tetti così a portata di mano, s’affaccino ai balconi o giochino coi bambini per i viottoli. Ma il cuore segreto del paese è nel Santuario scavato col freddo dei suoi marmi dentro la terra come la stiva di un piroscafo carico di voti e di candele, tentennante nel buio ove salmodiano i ciechi. I quadretti ex voto dipinti forse da un mestierante narrano la storia dei miracolati.


Così appare Monte S. Angelo verso Oriente


Il Santuario sotterraneo di Monte S. Angelo è dedicato a San Michele e nei quadretti ex voto dei miracolati è sempre l’Arcangelo che appare con la spada in resta e la corona sul capo. Il carrettino rosa sotto il cielo chiaro in mezzo alle case di una immaginaria Palo del Colle è un delicato paesaggio. Forse, per questa semplice pulizia che andava rispettata, gli altri visitatori comunque devoti non hanno esitato a scrivere il proprio nome e a ricordarsi ai posteri. Gli italiani hanno la sperimentata mania di firmare dovunque.


Lungo la scala sotterranea che immette nel Santuario sono esposti gli ex voto dei miracolati: quadri, fucili, calchi


La storia del miracolato è narrata dal quadretto stesso e non c’è altro da aggiungere. C’è solo da rilevare la meticolosa precisione del racconto illustrato che nella nostra tradizione precede di molto i fumetti. Questa volta il pittore ha dovuto spingere la sua immaginazione al di là del paesaggio consueto e indovinare nientemeno che Roma e lustrare ben bene la carrozzeria di quell’autobus che somiglia a un giocattolo. Una « visione » ingenua e primitiva.


Chissà come ha fatto a salvarsi quest’uomo che cade in un pozzo tutto lastricato, e non soltanto di buone intenzioni. L’ingenuo vignettista ha avuto la mano pesante nel dimostrare che la grazia è sorprendente e che la testa di Greco Luigi è a prova di bomba. La cosiddetta verità che si tocca con mano, spesso si tocca anche col capo. Una bella vittoria per i « veristi » di tutti i tempi, se non fosse che il miracolo ha sempre bisogno di un’illusione.

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